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Una gita nell’Uncanny Valley: la recensione di Warcraft

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Per un attimo, un brevissimo attimo, Duncan Jones era stato uno di quei registi da tenere d’occhio. Anche quando, solamente al secondo film, si era piegato alle leggi del commercio girando un’opera su commissione come Source Code, aveva comunque fatto un ottimo lavoro e lasciava ben sperare che, una volta tornato a fare cose sue, non ci avrebbe deluso. E lui invece che fa? Dirige Warcraft – L’inizio.

Dal regista di M... non ce la faccio.

Dal regista di M… non ce la faccio.

Cioè, io delle volte davvero non capisco le motivazioni dei produttori di Hollywood. “Dobbiamo trovare un regista per Warcraft perché Sam Raimi ci ha tirato pacco”. “Ho io il nome giusto: Duncan Jones!”. Per quale ragione? Perché l’autore di un piccolo film di fantascienza claustrofobica incentrato su un solo personaggio isolato in una base lunare ha fatto pensare ai tipi di Blizzard Entertainment di ingaggiarlo per un blockbuster fantasy con ampie dosi di digitale, orchi, lupi giganti, grifoni e stregoni a buttare? Non lo so. Quello che so è che era palesemente una scelta bislacca e, purtroppo, il risultato finale lo conferma.

Ci tengo a precisare una cosa, prima di proseguire: non sono un amante dei videogiochi, non ho mai giocato né a Warcraft né a World of Warcraft, so vagamente di che si parla perché avevo un amico infoiato che mi raccontava le missioni che faceva. Da quel poco che avevo capito, era un rip-off abbastanza sfrontato della Terra di Mezzo di Tolkien (e quale fantasy non lo è?), con nani, elfi, orchi e compagnia cantante. Questo per dire che non mi posso emozionare vedendo citato il pugnale fatato di Sfrunz o la città di Cippa Di Cazzus. Niente contro chi lo fa, a me succede con le cagate dei film Marvel. Ma, come in quel caso, ovviamente gli omaggi non mi bastano e non dovrebbero bastare. Dovrebbe esserci della sostanza che renda il film un’esperienza a se stante.

Sobrietà.

“Ehi guarda Sgurloz, il magico portale di Gnarl si è aperto a Sarkazz!”. “Io lo chiamo un giovedì”.

Ed è qui il problema di Warcraft: è una palla micidiale, pensata solo per chi conosce il gioco e capace di escludere chiunque altro per via di una trama fantasy che più standard non si può, con l’orco malvagio che vuole conquistare il mondo. La aggiorna, seppur minimamente, rendendo sfaccettate le psicologie degli orchi, un popolo tribale complesso in cui ci sono buoni e cattivi, e uno di questi, Durotan (che sembra più che altro il nome di un farmaco per le disfunzioni erettili) è un eroe senza se e senza ma. Un concetto piuttosto interessante che purtroppo è un’isola sperduta in un mare di NOIA. Pensate che il film riesce pure a sprecare un protagonista come Travis Fimmel, che in Vikings trasuda arroganza e carisma e qui boh, è un generico cavaliere la cui caratteristica più importante è essere fratello della regina.

Altro grosso problema: Duncan Jones non riesce assolutamente a farci entrare nel mondo di Azeroth. I migliori fantasy sono quelli che sanno evocare un mondo complesso, concentrandosi però su una serie di concetti semplici per non confondere i neofiti e portarli per mano verso la roba più incasinata. Il signore degli anelli (hai detto niente), ad esempio, lo fa aprendo la storia sulla Contea, facendoci identificare con personaggi sempliciotti come gli Hobbit e poi trascinandoci verso l’azione con loro. Warcraft, invece, parte già nel mezzo dell’azione, passa costantemente dal mondo degli orchi a quello degli umani senza farci capire granché (soprattutto di quello degli umani) e sparando termini nerd a raffica di mitra. Tipo così:

I tipi di fianco a me in sala erano tutti esaltati quando hanno visto il suddetto pugnale di Sfrunz, io invece mi guardavo intorno cercando uno sguardo amico, qualche parola di conforto. Perché a me non me ne frega niente se il Bifur del Grundig si è aperto a Dolguldur. Mi devi far divertire. Mi devi intrattenere. Devi farmi venire voglia di veder proseguire la saga! E no, non basta mettermi il sottotitolo “L’inizio” e un finale aperto. È troppo facile così.

Anche visivamente il film è un incubo. Non c’è assolutamente nulla che ricordi anche lontanamente il regista di Moon. L’unico termine di paragone che mi viene per descrivere il look di Warcraft è questo: immaginate Joey DeMaio dei Manowar che aerografa un’aquila gigante sulla fiancata di un monster truck in corsa, mentre cavalca uno stallone e con l’altra mano esegue un assolo di basso in tapping. Il medesimo buon gusto è alla base di ogni scelta fatta in questo film, dai design delle città a quelli degli animali e dei mostri. È tutto ROBOANTE e CARICHISSIMO. Di colori, di dettagli. Persino gli orchi sono stra-carichi di roba, nel senso che proprio hanno addosso ogni genere di amennicolo – collane, bracciali, ossa, anelli, cazzi, di tutto. Ok che son grossi, ma non si capisce manco come facciano a muoversi.

Il production designer Joey DeMaio parla alla troupe.

Il production designer Joey DeMaio parla alla troupe.

Questo, però, è il sintomo di un problema più grande che affligge questo genere di mega-produzioni, quando manca un autore forte dietro che sappia selezionare e affilare il materiale a disposizione. Perché Warcraft ha un plot risibile e allora si è andati all in con l’impianto visivo, anche grazie a mamma CGI che permette di realizzare praticamente qualsiasi cosa. Ma l’adagio è sempre quello, non cambierà mai: solo perché PUOI fare tutto, non vuol dire che DEVI fare tutto. Se non ti poni dei limiti e non hai rigore, viene fuori un pasticcio. Prendiamo ancora gli orchi: sono la rappresentazione perfetta del concetto di Uncanny Valley. Ce l’avete presente? Toh, guardate che bel grafico.

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Cito Wikipedia per comodità:

“Uncanny valley (traduzione: la zona perturbante o valle perturbante) è un’ipotesi presentata dallo studioso di robotica nipponico Masahiro Mori nel 1970 pubblicata nella rivista Energy. La ricerca analizza sperimentalmente come la sensazione di familiarità e di piacevolezza generata in un campione di persone da robot e automi antropomorfi aumenti al crescere della loro somiglianza con la figura umana fino ad un punto in cui l’estremo realismo rappresentativo produce però un brusco calo delle reazioni emotive positive destando sensazioni spiacevoli come repulsione e inquietudine paragonabili al perturbamento”.

In parole povere: un robot umanoide palesemente finto ci fa sorridere o magari anche complimentarci con l’inventore. Uno che invece è QUASI perfettamente umano, tranne che per pochi dettagli, ci provoca una sensazione di disgusto e di rifiuto, dovuta (penso io) a un qualche ancestrale meccanismo di difesa del nostro cervello. In Warcraft, nello specifico, succede che gli orchi, realizzati in motion capture, si muovono benissimo, recitano davvero perché sotto ci sono dei veri attori (tipo Toby Kebbell). Hanno degli occhi molto espressivi, un netto miglioramento sui primi esperimenti di motion capture fatti da Zemeckis. Epperò, d’altra parte, la texture della pelle è fintissima e quel sovraccarico di amennicoli di cui vi parlavo prima non aiuta. Il risultato funziona solo in rarissime inquadrature, e per il resto siamo appena sopra il livello di un videogioco.

Dai Duncan, adesso basta con le cazzate.

DVD-quote:

“World of Borecraft”
George Rohmer, i400Calci.com

>> IMDb | Trailer

L'articolo Una gita nell’Uncanny Valley: la recensione di Warcraft proviene da i400Calci.


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